Camminar pensando - 26 gennaio 2025, 07:50

Dubra La donna che seminava aquilegie

Capitolo UNO

La chiesetta del Monte Croce e il lago Maggiore (ph. Mauro Carlesso)

La chiesetta del Monte Croce e il lago Maggiore (ph. Mauro Carlesso)

Appena la stagione lo consentiva Dubra saliva sulla collina alle spalle di casa.

Per la verità, in quel luogo si recava anche quando il tempo non era favorevole perché, su quella piccola montagna, Dubra trovava la serenità e la pace che alle volte la malinconia della quotidianità oscuravano.

Così usciva di casa e al mattino o dopo pranzo o anche, quando era estate e faceva buio tardi dopo cena, saliva lassù. Capitava anche che ci salisse con la nebbia o con la pioggia, quella fine però, che inumidiva soltanto e non bagnava. Ma anche quando l’inverno stendeva la sua lunga mano non disdegnava, Dubra, di salire anche con la neve. Le piaceva sentire i suoi passi croccare sul manto nevoso e così anche sotto una fitta nevicata, capitava che uscisse di casa e, come un animale selvatico si avventurasse nel bosco per salire lassù.

Salirci richiedeva poco meno di un’ora. Il dislivello era contenuto ed i sentieri, ancorché ripidi in alcuni tratti, erano ben tenuti non fosse altro per il suo frequente passaggio.

A Dubra lassù piaceva salirci da sola. Sebbene avesse passato i settanta ed avesse una corporatura minuta ed apparentemente gracile era ancora in gamba. Anni di solitudine l’avevano temprata al punto che non la intimoriva di camminare tra i boschi senza alcuna compagnia. Era contenta Dubra, proprio quando durante le sue escursioni non incontrava anima viva (che poi era la norma). Solo raramente le capitava di incappare in qualche cacciatore (che vedeva come il fumo negli occhi) o in qualche pettegola del paese (che si scrollava di torno con un fugace buongiorno o buonasera) o anche, più frequentemente quando era stagione, in qualche “fungiatt”. Anche questi ultimi incontri li mal sopportava dato che lei stessa era un’ottima cercatrice di funghi.

Abitava in una frazione collinare di Lesa, tra Arona e Stresa in quel territorio della sponda manzoniana del lago Maggiore che va sotto il nome di Vergante. Un territorio ricco di arte, acqua, boschi ed ondulazioni che fronteggiano il lago nella sua parte bassa prima di incunearsi nel golfo di Verbania e risalire poi lungo la riviera di Cannero e Cannobio fino a chiudersi nell’elvetica Piana di Magadino.

Dalla sua casa isolata stava ore ad osservare il lago e le nuvole che lo sorvolavano. Le osservava dal giardino se il tempo lo consentiva o al riparo della grande veranda quando la pioggia ed i temporali lampeggiavano e rumoreggiavano sopra la sua testa.

Indurita ed inselvatichita dalla solitudine si era presto stancata di accompagnare su quella panoramica sommità qualche amico che la veniva a trovare, qualche vecchia cliente del negozio o quella nipote, unico elemento rimasto della famiglia, che di tanto in tanto   andava a farle visita per sincerarsi con un velo di ipocrisia se, data l’età, stesse ancora bene. Era stanca Dubra di fare da compagna a queste persone che non provavano nulla a livello emotivo, che non riuscivano a partecipare, sono parole di Dubra, a quello spettacolo incantevole regalatoci dal buon Dio. A Dubra, in quelle occasioni, piaceva punzecchiare coloro che svogliatamente la seguivano fin lassù, con l’aforisma di Chesterton:” Il mondo non perirà per mancanza di meraviglie, ma per mancanza di meraviglia”. E lo diceva con amarezza ed anche con stizza perché le spiaceva che, nonostante la sua scelta di tagliare i ponti con il mondo, il suo perenne stupore di bambina, quel miracoloso sapersi ancora stupire e meravigliare, non potesse essere condiviso. Anche questa era una peculiarità di Dubra: condividere era per lei importante ma con chi farlo?

Figlia di un facoltoso avvocato di Lugano dal quale ha ereditato il carattere duro e determinato e di una ballerina galiziana dalla quale ha preso la fierezza ed il portamento, rimase orfana di entrambi i genitori poco più che ventenne. Sostenuta svogliatamente dalla zia paterna riuscì a laurearsi in agronomia non dopo aver lottato col genitore che la voleva a fianco nel suo prestigioso Studio legale. Anni spensierati quelli degli studi nei quali conobbe il giovane che sarebbe poi diventato suo marito.

Stabilitasi ad Arona, per anni assieme all’amore della sua vita aveva mandato avanti un negozio di erboristeria quando questa attività era agli albori e si doveva ancora fare i conti con lo scetticismo della gente e l'avversione non troppo velata della medicina ufficiale.

Poi un bel giorno, una cliente un po’troppo affezionata si portò via quel marito amorevole ma debole e forse non adatto ad una donna come Dubra che rimase senza uomo, senza figli e con tanta amarezza. La perdita del marito così inaspettata la cambiò. Per un po' mandò avanti l’erboristeria da sola ma la ferita lì dentro, in quel negozio messo su dal niente con suo marito, bruciava ogni giorno sempre di più. Cauterizzare la ferita: questo era quello che decise di fare Dubra. E lo fece alla sua maniera, dura e determinata come il padre le aveva insegnato ad essere, cambiando radicalmente la sua vita. Era ancora una piacente signora di mezza età quando vendette casa e bottega ad Arona e si trasferì in quella abitazione isolata assomigliante ad un nido d’aquila dove pochi l’avrebbero notata e nessuno le avrebbe mai più fatto del male. Di uomini diceva di non volerne più sapere. Della famiglia le restava solo quella nipote che vedeva raramente e con poco entusiasmo. Nonostante fosse chiusa in sé stessa ed in quella sorta di eremitaggio tutti conoscevano Dubra anche se lei non ricambiava più di tanto la socialità.

Per tutti in paese era "la Dubra" ed ognuno, non fosse altro che per il comportamento conventuale che teneva, non aveva che da dirne bene. Certo non mancavano i commenti tra i tavoli del circolo, al crocicchio della chiesa o anche quando alcune megere petulanti si incrociavano nei boschi quand'era stagione di funghi. Allora, forse anche per via della conoscenza delle erbe nonché di quel nome Dubra incomprensibile e che perfino nessun anziano del paese aveva mai sentito, uscivano aggettivi quali maga, strana, muta, ma mai nessuno si spingeva oltre in tono offensivo. Tutti sapevano, per un sentito dire infantile che girando di bocca in bocca si ingigantisce oltre misura che era stata abbandonata dal marito invaghitosi di un’altra donna. Quella sì, l’altra donna, era giudicata una megera, una rovina famiglie. E forse anche per questa sorte sfortunata benché piuttosto comune che la Dubra in paese era comunque rispettata.

La panchina del Monte Croce (ph. Mauro Carlesso)

Quando arrivava lassù, alla chiesina della collina chiamata Monte Croce, sedeva sulla panchina che guardava il lago che da quella prospettiva appariva come se fosse un grande fiume, guardava la pianura sottostante ed i monti in lontananza. Giocava ad individuare dall’alto i luoghi conosciuti: la chiesa di quel paese, la villa di tal dei tali, le cime e le creste delle montagne che conosceva a memoria per averle frequentate in gioventù con il suo amato, la ferrovia con le sue gallerie, la strada puntinata di macchine che da lassù parevano formiche.

Di condividere quel luogo, quello stupore, quelle cime, quel lago e quel gioco alla ricerca dei campanili e delle strade, Dubra lo faceva ormai solo con una persona. Si chiamava, buffamente per Dubra, Somerset. Come quel Maughan, affascinante scrittore inglese che in piena guerra fredda non disdegnò di fare l’agente segreto al servizio di Sua Maestà.

Questo Somerset era un prestante anziano dall’aspetto giovanile che amava il buon vino, il buon cibo (più il vino per la verità) e tutto ciò che fioriva e profumava: era un tipo strambo dal portamento d’altri tempi che a Dubra piaceva e per il quale nutriva un’affettuosa ammirazione (così si esprimeva Dubra al riguardo lasciando parecchio all’immaginazione).

La rocca di Arona (ph. Mauro Carlesso)

Si erano conosciuti, lui e la bella Dubra, almeno trent’anni prima in un campo di lavanda di Mont Froc, un piccolo borgo nei pressi di Sisteron in Provenza. Somerset era di quella zona. Del Luberon più precisamente. Era estate piena. La lavanda era già stata raccolta lasciando però ancora molte spighe belle turgide, colorate e profumate, tra i chilometrici filari. Come due ectoplasmi vaporosi si materializzarono nell’afa che saliva dal suolo, uno di fronte all’altra. Lui con un cesto di vimini ricolmo di spighe e lei con un sacco da raccoglitrice in grembo straboccante di fiori. Non c’era nessun altro. Il caldo era insopportabile e per Dubra quel signore con il cappello di paglia alla Hermann Hesse e per Somerset quella delicata signora che grondava di sudore parve un’apparizione o meglio, come si dice in simili casi, un segno del destino.

Quello stesso giorno avevano cenato a Sisteron, nel ristorante sotto la precipite parete calcarea che incombe caratteristica sull'abitato e che a Dubra ricordava tanto la sua Arona caratterizzata anch'essa da una parete a picco sul lago e che sorregge quella rocca borromea che diede i natali a San Carlo. Quella sera, vuoi per la similitudine morfologica e complice un bicchiere di troppo Dubra si sentiva a suo agio come nella sua casa sul lago. Ed anche quell'uomo che per tutto il giorno e neppure al tavolo del ristorante aveva tolto quel cappello di paglia le ricordava l'uomo della sua vita. L'unico con il quale avesse condiviso una parte della sua esistenza. Quella che Dubra ci teneva a sottolineare come la parte più bella della sua vita.

Da quel giorno iniziarono un’ininterrotta relazione a distanza fatta di lettere e compendi di botanica (lui insegnava questa materia all’università di Marsiglia) e di pratiche erboristiche. Somerset per motivi di lavoro veniva spesso a Milano e Pavia dove teneva seminari ed in quelle occasioni non mancava di far visita alla donna della lavanda, come amava chiamare affettuosamente Dubra.

Aquilegia alpina (ph. Mauro Carlesso)

Mauro Carlesso - Scrittore e camminatore vegano

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