Viviamo in un'era digitale dove, dietro ogni tweet, post o commento, c'è un volto umano. O almeno dovrebbe esserci. Invece, troppo spesso, ci troviamo di fronte a un esercito di ombre, di "individui malhonnêtes et lâches", che, protetti dall'anonimato delle piattaforme social, si sentono legittimati a scagliarsi contro gli altri con un fiume di insulti, offese, ingiurie, scherni e umiliazioni. Questi "eroi" senza volto hanno trovato nella distanza virtuale il loro terreno di gioco, un luogo dove la decenza e il rispetto sembrano non avere valore. Eppure, sono i veri "vincitori" di questa battaglia a distanza: quelli che vincono a colpi di tastiera, per poi nascondersi dietro il nulla.
Ogni insulto anonimo sui social è una manifestazione di una miseria più grande di quella che viene espressa. Non si tratta di una semplice forma di cattiveria gratuita: è la più alta espressione della codardia umana. L'insulto anonimo non è solo un'aggressione verbale; è un colpo vigliacco che cerca di ferire senza mai essere visto. Ma la domanda è: chi sono davvero queste persone che si nascondono dietro una tastiera? Sono uomini e donne che, nella vita reale, non avrebbero mai il coraggio di affrontare le proprie vittime. La mancanza di una faccia, di un nome, di un corpo, permette loro di illudersi di avere potere. Ma il loro vero potere non è dato dalla forza, bensì dalla paura che riescono a seminare, dal malessere che generano nei cuori di chi viene colpito.
«Il codardo è il primo a credere che nessuno lo scopra», diceva il filosofo francese Jean-Paul Sartre. Ecco, l'anonimato sui social è la trappola perfetta per chi ha bisogno di sentirsi potente, ma senza mai esporsi alle conseguenze delle proprie azioni. L’insulto diventa così una maschera che rivela la vera identità di chi lo emette: non una persona audace, ma un essere privo di rispetto, senza valore, che, sfruttando la protezione che il web offre, cerca di colpire senza essere visto.
Non è un fenomeno innocente, come alcuni potrebbero credere. Anzi, è un comportamento che erode la qualità del dibattito pubblico e offende la dignità di chi viene preso di mira. La vittima di questi attacchi non è solo chi riceve le offese, ma l'intera comunità, che vede nel suo spazio di condivisione e confronto un luogo dove ogni voce può essere messa a tacere, non con la forza dell’argomento, ma con la violenza della parola. Questi "troll" – la loro etimologia ci racconta di creature malvagie e provocatorie – non hanno mai l'intenzione di dialogare, ma solo quella di distruggere. Non sono interessati al confronto, ma al disprezzo.
Il paradosso è che proprio coloro che si ritengono invulnerabili nell'anonimato, si rivelano, nel loro comportamento, i più deboli. La loro ferocia non è il segno di una forza superiore, ma di una paura atavica: quella di essere scoperti per ciò che sono veramente. E se è vero che la forza di un individuo si misura nel modo in cui affronta le difficoltà, è altrettanto vero che l'anonimo che insulta dimostra solo di essere un debole. Debolezza, non forza.
È interessante notare come questi comportamenti vengano giustificati con il pretesto della "libertà di espressione", come se offendere fosse sinonimo di opinione. Ma la libertà di espressione ha dei limiti ben precisi, e uno di questi è il rispetto per l’altro. Offendere gratuitamente non è esprimere una propria opinione, è abusare di un diritto fondamentale per minare la dignità di un altro essere umano.
Ironia della sorte, molti di questi "coraggiosi" si credono liberi nel loro anonimato, ma sono schiavi di una debolezza interiore che non si può nascondere dietro un nickname. Come affermava l'autore francese Albert Camus: «La vera libertà non è quella di poter fare ciò che si vuole, ma quella di poter scegliere cosa è giusto». E scegliere di umiliare gli altri, anche se nascosti dietro una tastiera, non è mai una scelta giusta.
Quindi, cosa fare con questi "coraggiosi" anonimi che si divertono a semina zizzania, a spargere veleno digitale? La risposta, forse scontata, è ignorarli. Non nel senso di lasciarli fare, ma di non dar loro il palco che tanto cercano. Non è un atto di passività, ma una presa di coscienza: non possiamo permettere che la nostra realtà sociale venga contaminata da chi, nell'ombra, cerca solo di distruggere. Non possiamo lasciare che la loro miseria diventi la misura del nostro tempo. Come ha detto l’autore e attivista Maya Angelou: «Quando qualcuno ti mostra chi è, credigli». Se qualcuno ti mostra la sua codardia, non bisogna fare altro che credere a ciò che è: un codardo.
L'anonimato sui social non è una libertà, ma una prigione, sia per chi lo esercita che per chi lo subisce. E, come ogni prigione, non ha nulla da offrire tranne la solitudine e la vergogna. Chi insulta anonimamente sta combattendo una guerra che, in realtà, ha già perso. Infatti è solo un povero bipede poco sapiens.