Ci sono luoghi che parlano piano, e solo a chi ha la pazienza di ascoltarli. Il versante meridionale del Monte Rosa è uno di questi. Tra le creste che superano i quattromila metri, i ghiacci ancora resistenti e le vallate che si aprono come antiche pergamene, si nasconde una storia lunga milioni di anni e una domanda attualissima: che ne sarà di questa bellezza?
Nel cuore di quella che oggi è classificata come ZSC/ZPS “Ambienti glaciali del gruppo del Monte Rosa” si muove una speranza sottile, ma testarda come il vento d’alta quota: l’istituzione di un Parco naturale regionale. Un’idea che non nasce ora, ma che oggi torna con la forza dei fatti e con l’urgenza del tempo che cambia.
Tra le valli di Valtournenche, Ayas e Gressoney-La-Trinité si estende un patrimonio straordinario, riconosciuto dall’Unione Europea per il suo valore ecologico, storico e geologico. Un luogo dove ogni roccia racconta la storia dell’orogenesi alpina, dove gli antichi fondali dell’oceano della Tetide affiorano sotto forma di serpentinìti, eclogiti, prasiniti e micascisti. È una geologia che non si limita a stupire, ma spiega. E che, come scriveva il professor Dal Piaz, meriterebbe un Parco dell’Oceano Perduto. Un nome poetico per un’idea scientificamente solida.
Nel Vallone delle Cime Bianche, ancora oggi, si leggono le tracce del tempo, come in un manoscritto che la Natura ha lasciato aperto: i morenici, le torbiere fossili, le risalite mineralogiche, i resti degli ultimi ghiacciai e, da pochi anni, perfino la mummia di una marmotta vissuta seimila seicento anni fa.
Ma questa montagna non è solo geologia. È anche pascoli e fiori, è il Ranuncolo glaciale che fiorisce oltre i 4200 metri, è il canto invisibile del fringuello alpino che nidifica là dove l’aria si fa quasi assenza. È la casa dello stambecco e dell’aquila reale, è la memoria viva degli insediamenti walser, dei ru scavati a mani nude, delle miniere d’oro dello Stolemberg. È cultura e resilienza.
Eppure oggi tutto questo non è protetto come potrebbe, come dovrebbe. Il sito Natura 2000 esiste, ma non basta. Non basta a fermare progetti invasivi, come la discussa funivia nel Vallone delle Cime Bianche. Non basta a garantire una gestione attiva, non basta a raccontare la storia a chi viene da fuori. Non basta a creare quei posti di lavoro qualificati che darebbero ai giovani un motivo in più per restare.
Così, mentre le risorse regionali per la tutela ambientale sono sempre più magre, si fa strada l’idea di un Parco. Un’area protetta di oltre diecimila ettari, connessa idealmente e magari un giorno anche formalmente con il Parco naturale del Mont Avic, in un abbraccio verde che farebbe della Valle d’Aosta una terra ancora più autentica. Un parco che non sarebbe una chiusura, ma un’apertura: alla ricerca, alla didattica, al turismo lento, all’economia locale legata alla cura del territorio. Un luogo dove riscoprire antichi alpeggi e sentieri, dove far nascere ecomusei, dove raccontare l’orogenesi a scuola e sul campo.
Non è una fantasia da ambientalisti. È un progetto concreto, che molti studiosi, escursionisti, amministratori, agricoltori e appassionati chiedono da anni. Non per fermare il tempo, ma per dargli un senso. Perché il Monte Rosa non è solo una cima da conquistare, ma un paesaggio da comprendere, rispettare e trasmettere.
E allora sì, l’auspicio è chiaro. Che questo patrimonio non resti una somma di vincoli mal gestiti o un angolo sacrificato al turismo veloce. Che diventi invece un Parco. Un luogo in cui la storia naturale e umana trovi casa, e da lì continui a raccontare. A chi sale, a chi resta, a chi ancora non sa.