Dubra saliva sul colle fuori di casa anche per svolgere un compito particolare. Quando nel suo giardino, dopo la fioritura le aquilegie andavano in semenza, scrollando con vigore i calici florali divenuti secchi, Dubra raccoglieva in piccole bustine di carta (che preparava lei stessa) i microscopici semi che ogni pianta produceva in grande quantità.
Su ogni sacchettino indicava minuziosamente il nome della varietà, se era ancora in grado di stabilirla (le aquilegie si ibridano in maniera scellerata) ed il colore (bianca e rossa con speroni gialli, viola e azzurra, bianca e rosa, etc.).
Munita di questi sacchettini saliva sulla sua collina e strada facendo ne disperdeva il contenuto ora sotto un faggio, ora tra due betulle, ma anche nei pressi dei muretti a secco o adiacenti alla chiesetta che, con la grazia che solo questi manufatti sanno suggerire, arricchiva la cima della collina. E disegnava su un taccuino Dubra, i luoghi dove queste fioriture avrebbero punteggiato coi loro colori il verde della rigogliosa vegetazione.
Da anni ripeteva quel gesto autunnale della semina a spaglio delle sue aquilegie. Coltivava dentro di sé la speranza di vedere un giorno una straordinaria fioritura di quelle aristocratiche corolle adornare ed arricchire quei luoghi incantevoli per il piacere di coloro che, anche dopo di lei, fossero saliti lassù.
Somerset, in una fulgida mattinata in cui erano seduti sulla panchina davanti alla chiesetta di Santa Maria Ausiliatrice in cima al Monte Croce, lesse a Dubra “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono la cui storia del pastore Elzéard tanto assomigliava, con quel suo piantare alberi, a quel che Dubra faceva con i fiori. “L'obiettivo di Elzéard era quello di rendere piacevoli gli alberi, o meglio, rendere piacevole piantare gli alberi.” Diceva Giono. E in questo Dubra si riconosceva interamente fino alla commozione perché entrambi, il piantatore di alberi e la seminatrice di aquilegie desideravano perpetrare la continuazione della bellezza delle piante e dei fiori. Prima che, come soleva ammonire Dubra, fosse troppo tardi.
Allora succedeva che Somerset, ogni volta che era ospite di Dubra, salisse assieme a lei a condividere i luoghi, i paesaggi, le cime delle montagne ed il lago. Ma quando era stagione saliva anche, Somerset, accalorato dall’entusiasmo di vedere anno dopo anno crescere quella foresta floreale di orgogliose ed impettite aquilegie dai colori sgargianti che sembravano manifestare la propria riconoscenza per quella rinnovata vitalità e protezione che la minuta ed amorevole Dubra elargiva loro insieme a quello strambo signore dal divertente accento francese.
E Somerset percepiva quella vitalità e quella riconoscenza in particolare osservando Dubra quando, avvicinandosi alle aquilegie, mostrava un interesse ed un'attrazione straordinaria. Ne sollevava delicatamente il calice spesso rivolto verso il basso e ne esplorava le cavità con l’entusiasmo e lo stupore di uno speleologo che si inoltra per la prima volta in una grotta misteriosa. Adorava osservare il ciuffetto di antere che spunta dalla corolla e si perdeva con lo sguardo nella profondità del calice aspirandone l’impercettibile profumo.
Tra tutte le varietà Dubra preferiva quella scura, violacea, quella più comune che nel bosco risultava assai meno evidente delle sue sorelle più colorate ed esuberanti. Amava questa varietà per la timidezza che profondeva e per via di quel nome così poetico ed evocativo di "amor nascosto" che in alcune parti del nord Italia solevano attribuirgli. E questa paziente osservazione l’aveva trasmessa anche a Somerset che da allora aveva fatto delle aquilegie i suoi fiori preferiti. E chissà se la leggenda che voleva l’aquilegia come fiore sacro dedicato a Venere e che porgendone un mazzetto ad una persona cara ne avrebbe suscitato l'affetto, non avesse davvero trovato conferma proprio tra l’esile Dubra ed il prestante Somerset.
La relazione tra loro si era sempre mantenuta attraverso una nutrita corrispondenza cartacea anche quando la tecnologia aveva fatto ingresso nelle loro vite. Dubra possedeva un semplice cellulare che svolgeva poche funzioni e che usava raramente e comunque solo per telefonare. Ed anche Somerset con il telefonino aveva un cattivo rapporto.
Quella primavera di lettere da Somerset improvvisamente non ne arrivarono più. Dubra gli scrisse ancora due, tre, quattro volte. Ma non ricevette alcuna risposta. Non serviva telefonare.
Arrivato maggio, una mattina di buon’ora salì alla sua collina visitando tutte le stazioni di aquilegie che conosceva. Erano in pieno rigoglio. Le salutò tutte. Una ad una, raggiunse la chiesina e guardando il lago commovente non riuscì a trattenere le lacrime piangendo di un pianto liberatorio al quale non era avvezza. Ricordava solo rari e sporadici episodi nei quali si era ritrovata con le gote inumidite dalle lacrime. Ed erano ricordi che risalivano per lo più alla sua infanzia od al massimo all’adolescenza. Poi mai più una goccia di amarezza aveva solcato le sue guance. Neppure quando l’unico uomo della sua vita l’abbandonò.
Ma sotto al breve portichetto della chiesina, seduta sulla vecchia panca di legno, la stessa sulla quale si era seduta assieme a Somerset tante volte, stette a piangere per un tempo infinito, così almeno le parve, prima di scendere dal monte e tornarsene a casa.
Aquilegia, l’amor nascosto (ph. Mauro Carlesso)
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