Questo è un anno di elezioni: le persone investono tempo ed energie per immaginare la vita di domani, ciascuno con un ruolo differente. Credo che, in questo periodo, tutti dovrebbero pensare all’altrui e non al proprio destino.
Sabato sera ho partecipato, nella collegiata di Sant’Orso, a un concerto dell’Arcova Vocal Ensemble, un gruppo di giovani provenienti da diverse corali valdostane, diretto da Caroline Voyat che, con questa esibizione, si congedava dal coro essendo scaduto il quinquennio di direzione previsto dal regolamento stabilito dall’Associazione Regionale Cori Valle d’Aosta per questa formazione, nata nel 2014.
Il concerto è stato bellissimo: un repertorio variegato, complesso, pieno di atmosfere mistiche, evocative e poetiche. Il gruppo, coeso e virtuoso, ha affrontato arditezze tecniche che pochi cori di professionisti si possono permettere d’includere nei loro repertori. Hanno cantato da donne e uomini di montagna, con la finezza di chi sa guardare in silenzio il cielo dalle vette e con la forza di chi scala e arrampica impavido, alimentato da un fervido desiderio d’orizzonte, di vastità.
Così, ho tenuto il fiato sospeso al canto sottile di una preghiera e sussultato al vociare accorato di anime perse in un mare di morte: presenze antichissime, immutabili, confuse con umori inquieti di oggi, dissonanze e vicende irrisolte come quelle di noi viventi. Caroline ha condotto il gruppo con un vitalismo avvolgente e puntuale; ha fatto sussurrare e gridare con misura, ha lasciato che ognuno dei pari potesse trovare il suo istante di luce, come un raggio riflesso nell’acqua increspata, senza mai perdere il legame con l’onda. Non c’è stato alcun moto di ego nel suo gesto arioso, elegante e conchiuso. E nessuno dei direttori di coro presenti nel gruppo, come voci tra gli altri, ha pensato di dare un acuto, per dire che c’era e chiedeva più luce degli altri.
Dopo essermi molto commosso, ho pensato.
Una regione che è capace di raccogliere vite giovani attorno a un progetto di bellezza come questo, attribuendo ruoli senza spintoni e desideri di primazia, rendendo servizi e poi dileguandosi con un sorriso appagato; una terra che è capace di distillare dalla sua natura suoni d’incanto e d’impeto con la medesima eleganza; una comunità che sa passare il testimone da persona a persona, senza invidia o prepotenza, sapendo che si è utili ovunque, se si ha imparato che ogni voce è unica, ma ogni coro ha bisogno di molte, differenti voci umili al punto da dare rilievo all’altro per costruirne una collettiva originale ed espressiva, allora…
Saprà scegliere le persone migliori per condurre il suo popolo verso un domani incerto e insieme pieno di opere da realizzare, di dissonanti disuguaglianze da risolvere in cadenze perfette, di scelte da compiere per ascendere verso acuti vertiginosi o fluttuare cullandosi in ciò che consola perché consueto, familiare, persistente.
E chi è stato chiamato a dirigere in passato potrà anche solo servire nel coro, cantando tra gli altri senza chiedere sempre un assolo, perché la sua voce sarà sempre unica e la voce del popolo armoniosa e piena di colori infiniti, se in essa si confonderà abbandonandosi.